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La pesca delle spugne a Lampedusa da fine ‘800 ai primi del ‘900

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La pesca delle spugne a Lampedusa da fine ‘800 ai primi del ‘900.

I primi abitanti giunti nell’isola a seguito della colonizzazione ad opera dei Borboni nel 1843, erano per lo più agricoltori e pochi artigiani. Il loro lavoro ben presto si rivelò vano e con esiti scarsi, tante che già con l’unità d’Italia molti coloni abbandonarono le terre e si dedicarono alla pesca ed alla salagione del pescato.

Il Prof. Decio Vinciguerra, nel Giornale Italiano di Pesca e Acquicoltura nel 1897, scriveva che nel 1887 un pescatore trapanese tale Leonardo Augugliaro al comando del trabaccolo « Nuova Carmine »  di rientro dai banchi di Sfax e dedito alla pesca delle spugne, dato che la pesca in quei posti non aveva dato buoni frutti, scandagliando il fondo a circa 20-30 miglia da Lampedusa scoprì un banco di spugne. Era il mese di Maggio del 1887 e questa sembrerebbe la data di comunicazione alle autorità marittime locali dell’isola per ottenerne l’autorizzazione alla pesca.

L’anno successivo l’area attorno all’isola di Lampedusa era piena di barche dedite alla pesca delle spugne, soprattutto Greche.

Successivamente furono scoperti altri banchi attorno all’isola di Lampedusa ed anche presso l’isolotto di Lampione.

Nel marzo del 1890 il totale delle barche attorno a Lampedusa raggiunse le 220 unità, queste erano di nazionalità italiana ma soprattutto greca. Quelle greche provenivano dai porti di Idra, Salonicco ed Egina dove esistevano fiorenti cantieri per la costruzione di barche speciali per la pesca delle spugne . Le barche italiane, addette a questa pesca, erano di proprietà per lo più di armatori di Lampedusa.

Nazionalità barche presenti a Lampedusa dal 1889 al 1894

Non tutte le barche facevano scalo a Lampedusa e nella tabella riportata sopra mancano per il 1893 e 1894 numerose barche greche, oltre 100.

Gli introiti economici furono rilevanti per l’epoca ed in un rapporto statunitense su questo tipo di pesca si legge che nel 1900 :…<< i pescatori di spugne delle Sporadi produssero spugne per un valore di circa 900.000 dollari e nel 1901 per un valore di circa 810.000 dollari, e negli stessi anni furono esportati dal Pireo rispettivamente per un valore di 171.791 e 280.048 dollari, ma senza dubbio una parte considerevole di questi fu pescata sulla costa africana e nei banchi di Lampedusa…>>

Le tecniche di pesca

Le barche usate per questo tipo di pesca erano i Trabaccoli, barche con uno o più alberi e vele al terzo.

A Lampedusa questo tipo di imbarcazione veniva chiamata Saccaleva con lo stesso nome di un tipo di pesca che veniva praticata per catturare le alacce, così come in seguito le barche adibite alla pesca a cianciolo furono chiamate Ciancioli e quelle alla pesca a paranza Paranze.

La tecnica di pesca delle spugne, venne descritta con dovizia di particolari nel rapporto statunitense dello United States Bureau of Fisheries, documento presentato al IV Congresso Internazionale della Pesca tenutasi a Washington, U. S. A., dal 22 al 26 settembre 1908. <<…Nella pesca delle spugne venivano utilizzati tre metodi: arpionare o agganciare, dragaggio e immersioni con lo scafandro. I pescatori italiani utilizzavano esclusivamente i primi due metodi, mentre circa la metà dei greci utilizzava lo scafandro, una tecnica molto più produttiva e con un pescato di maggiore qualità. Il dragaggio veniva effettuato per mezzo di un attrezzo da pesca chiamato gangava.

Attrezzo da pesca per la pesca delle spugne a Lampedusa " Gangava"

Attrezzo da pesca per la pesca delle spugne a Lampedusa ” Gangava”

Questa consisteva essenzialmente in un telaio rettangolare lungo da 4,5 a 12,20 metri e alto da 0,5 a 0,70 metri, al quale era attaccato un sacco profondo circa 1,8-3 metri, costituito da una tessitura a maglie larghe di corda leggera. La parte del telaio che raschiava il fondo era una barra di ferro rotonda di circa 6 a 7 centimetri di diametro, le cui estremità erano piegate ad angolo retto per una certa distanza pari all’altezza desiderata del telaio e collegati da una robusta barra di legno a formare il piano. Spesso le estremità del telaio erano corte barre di legno inserite nelle prese delle estremità rivolte verso l’alto della barra di ferro.

Sezione della draga che mostra la piegatura della barra di ferro alle estremità. Gangava - Lampedusa

Sezione della draga che mostra la piegatura della barra di ferro alle estremità. Gangava – Lampedusa

Nei telai più grandi le barre parallele di ferro e di legno che formavano rispettivamente il fondo e la sommità del telaio erano collegate e irrigidite da uno o due puntoni trasversali, ma nelle draghe più piccole questi erano omessi.

Montanti trasversali della gangava. Lampedusa

Montanti trasversali della gangava. Lampedusa

La briglia era composta da una corda che partiva dal centro della barra superiore di legno e da due, tre o quattro catene collegate in prossimità delle estremità e in uno o due punti intermedi della barra inferiore, tutte unite in un occhio o anello al quale la fune di traino era attaccata. Le diverse parti della briglia erano di lunghezza comparativa tale che il telaio rimaneva in posizione verticale durante il traino. La rete è allacciata alla barra superiore in legno e ad anelli saldati alla parte in ferro del telaio. La fune o il cavo di traino variava in lunghezza da 90 a 180 metri e, passava attraverso un mandrino o un blocco di presa vicino alla prua, veniva condotto a poppa fino ad un avvolgitore manuale. Un tirante piegato al cavo con un gancio rotante a una certa distanza dalla nave veniva condotto direttamente a una bitta o una punta vicino alla poppa e veniva utilizzato per controllare la deriva della nave. Una cima simile veniva portata sotto il fiocco e fissata sul lato opposto, da utilizzare quando la nave virava. Il metodo di utilizzo della draga era essenzialmente il seguente: mediante paranchi di testa d’albero o paranchi di gru fissati alla barra di legno del telaio, veniva abbassato prima il sacco finché il telaio non raggiungeva il livello della rotaia. La fune di traino veniva quindi piegata alla briglia e portata in avanti attraverso un blocco di presa. I paranchi venivano sciolti e la rete abbassata svolgendo lentamente la fune di traino fino a quando non veniva raggiunto il fondo, quindi la fune per un attimo veniva tesa per consentire alla borsa di raddrizzarsi senza sporcare il telaio o le briglie. Il peso delle catene e la parte inferiore del telaio e la galleggiabilità della barra superiore in legno facilitavano l’atterraggio dell’attrezzo con il lato destro rivolto verso l’alto. Il cavo di traino veniva quindi steso con una portata proporzionata alla forza del vento, meno richiesto in condizioni di luce leggera e di più in caso di forti brezze, e i tiranti venivano piegati a una distanza tale dalla nave da fornire un’adeguata facilità di manovra. L’apparato veniva sempre spostato sul lato sopravvento, la nave andava alla deriva sottovento con un progresso relativamente leggero, in modo da trascinare la draga ad una velocità di circa un miglio all’ora. Il tirante veniva utilizzato per governare la posizione della barca rispetto alla draga e al vento in modo da garantire la corretta direzione e velocità di deriva. Allentando la cima si avvicinava la barca al vento, diminuendo sia la velocità che la deriva, mentre issandola la si metteva fuori vento, aumentando così sia la rotta che la deriva. Se la direzione della deriva portava la draga oltre il bordo del letto di spugne, il tirante veniva allentato, la nave prendeva il vento, il tirante sottovento veniva tirato dentro, il cavo di traino veniva fatto passare sotto il bompresso e fissato sulla prua, mentre la nave ruotava sulla mure opposta attraverso il letto. Quando la draga era piena questa opponeva una forte resistenza dell’apparato. Le vele di prua venivano quindi ammainate e il tirante veniva teso finché la nave non si trovava in direzione del vento. Il cavo di traino veniva passato a un blocco di presa in avanti e veniva bloccato finché le briglie non si fermavano nel blocco. Due briglie volanti piuttosto lunghe, non mostrate nel disegno, venivano poi agganciate ai paranchi di testa d’albero, o solitamente a un paio di gruette, e venivano agganciate da piccoli verricelli manuali finché la barra di ferro non veniva portata all’altezza della battagliola, dove era assicurata da un paio di fermi catena. Il contenuto del sacco veniva poi scaricato, i rifiuti gettati in mare e le spugne sul ponte. Tre uomini potevano maneggiare la nave e dragare, ma poiché il lavoro veniva svolto giorno e notte, l’equipaggio era generalmente composto da 5 o 6 persone. Questo apparato poteva essere utilizzato solo su fondo liscio, poiché il telaio era soggetto a arroccamenti e la rete ad essere strappata su rocce ruvide, ma poteva  essere utilizzato in tutte le stagioni dell’anno e in qualsiasi condizione atmosferica. Questa tecnica di pesca era molto criticata per la sua distruttività, in quanto strappava o schiacciava tutte le spugne sul suo cammino, sia grandi che piccole, e che tante spugne venivano strappate e non venivano affatto pescate, lasciandole a morire sul fondo. In alcune località la gangava era vietata a profondità inferiori al minimo prescritto. In Egitto il limite era fissato a 80 metri (262 piedi), mentre a Cipro lo strumento era del tutto vietato. Veniva utilizzato principalmente sulle coste africane e sui banchi di Lampedusa…>>

La spedizione di H.E. Giglioli

Il ministro dell’Agricoltura nel 1890 ordinò al prof H.E. Giglioli, membro tra l’altro della Commissione consultiva per la pesca, di recarsi sull’isola di Lampedusa al fine di descrivere la pesca delle spugne in quei mari e per accertare i migliori e più proficui sistemi di pesca, al fine di dare una maggior diffusione all’importante industria, anche iniziando possibilmente una vera e propria spugnicoltura.

Il prof. Giglioli si recò sull’isola il 14 agosto 1890 con il Regio Avviso Marcantonio Colonna

Nel rapporto alla commissione scrive:

<<…Il 14 agosto 1890 eravamo a Lampedusa, là potemmo confermare la notizia avuta a Porto Empedocle che tutte le barche Elleniche con palombari si erano allontanate. Avevamo invano cercato di avere un abile palombaro per profondità superiori ai 35 metri, onde per esperimentare praticamente gli effetti di quel modo di pesca delle spugne dovemmo usare i mezzi di bordo facendo scendere il capo torpediniere in profondità ben minori. Sin dal primo giorno della nostra sosta a Lampedusa potemmo accertarci di fatto, raccogliendole sulle rocce del litorale, che le coste di quell’isola sono tutte spugnifere e che vi crescono spugne delle due varietà che si pescano sui banchi,  soltanto per ragione della loro ubicazione e per poter resistere all’azione delle onde quelle spugne non diventano voluminose, ma piuttosto si estendono lateralmente aderendo fortemente alla roccia.

La pesca di spugne commerciabili è stata fatta nel porto stesso di Lampedusa e in una cala subito a levante di esso, ove da pochi metri dal lido sino a circa 8 chilometri in fuori i palombari hanno pescato spugne di ottima qualità, il fondo nelle immediate adiacenze dell’isola è sparso di masse rocciose che vietano l’uso della cava .

Sulle spiaggie di quella Cala, detta dagli isolani Cala delle spugne, durante tempi forti, queste, svelte dai bassofondi vicini, vengono gettate sulla costa. Nella Cala delle spugne infatti a circa 500 metri da terra ed in profondità da 8 a 10 metri il nostro palombaro fece le sue discese raccogliendo un buon numero di spugne di ottima qualità e di buone dimensioni. Queste spugne servirono per uno sperimento di spugni coltura che facemmo il 16 agosto nella Cala della Madonna, a ponente del porto. Pezzetti di spugna viva vennero fissati su di un telaio di canne tenuto a fondo in un punto adatto con pani di piombo in una profondità di metri 8. Nelle nostre gite intorno a Lampedusa potemmo accertare che diverse località su quel litorale, e specialmente a mezzogiorno, sarebbero, qualora convenisse, adatte per la spugnicoltura. A Lampedusa tutti ci parlarono di tre banchi di spugne in quel mare: quello di mezzogiorno, di libeccio e di ponente, ci dissero che la pesca dava allora un prodotto minore ed infatti molte barche spugnifere erano nel porto. Ciò non toglie che nella presente stagione, cioè sino alla metà d’agosto, spugne pel valore di un milione e mezzo di lire in cifre tonde siano state esportate da Lampedusa. Le spugne raccolte dai palombari sono più stimate e la qualità migliore si vendeva a Lampedusa 25 lire l’oca, mentre le corrispondenti prese colla cava vendevansi a 20 lire l’oca…>>

Il rapporto continua con altre notizie, ma credo che fin qui possa bastare per ricordare sia un periodo storico sia un tipo di pesca fiorente e molto remunerativo per la popolazione di Lampedusa e non solo. La pesca delle spugne si esauri poco dopo la seconda guerra, in tutto il mare di Lampedusa riusci a resistere 50 anni circa.

Le riflessioni le lascio al lettore moderno che ben conosce l’isola, il suo mare, il territorio e le nuove spugne rappresentate dal turismo di massa.

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